La casa abbandonata e la conta dei presenti e degli assenti

VLetrmx21 ♫
“Non sei per niente avventuroso” mi disse quando infine vi spuntammo di fronte.
Per arrivarci ci eravamo fatti strada tra sterpi e cespugli che in alcuni tratti erano più alti di noi, scostandoli con entrambe le braccia e passandoci attraverso, schiacciandoli con i piedi e passandoci sopra. 
 
Doveva essere una bella casa.
 
 
Vicino ai muri si vede qualche scheggia di vetro. Chissà ormai quanti anni fa, qualche banda di ragazzini si deve essere divertita a rompere tutti i vetri delle finestre, lanciando contro la casa i sassi raccolti nel giardino, già allora abbandonato. Oggi le finestre non ci sono nemmeno più. A terra non vediamo neppure i rimasugli di legno marcio che un tempo erano telai di porte e finestre. Forse sono state divelte, portate via. O forse si sono tutte già sbriciolate, divenute terra.
In quello che era il loro posto i muri mostrano delle aperture irregolari. Viste da lontano, spiccano nere sulla carcassa della casa e appaiono a chi le guarda come orbite vuote, o una bocca sdentata.
 
 
 Le giriamo attorno. Da quello che doveva essere l'ingresso principale, ci affacciamo a guardarne l'interno. I muri sono tappezzati di scritte, alcune molto vecchie. Quasi tutte riportano semplicemente dei nomi: “Marco”, “Giovanni”, "Alberto e Anna", “Francesco”, “Laura”, e date incise sui muri.
Fa sempre un certo effetto leggerle, anche se non ce lo confessiamo.
“Io mi chiamo Marco, e sono qui”.
In una certa maniera è come se, mentre graffiava quei muri, chi le ha scritte volesse affermare, confermare di esistere. La presenza in quel posto e in quel giorno è un certificato di vita, una dichiarazione di presenza.
Ma come in un cinico paradosso, ciò che noi sentiamo più forte, scorrendo i loro nomi, è un sentimento opposto. È solo il senso della loro assenza.


Donato Tregua, Poesie e altre stronzate, Einaudi, 1972